cardiovascolare

Aumento di rischio di cancro nello scompenso cardiaco e IMA?

Uno  studio su linee cellulari di topi prospetta un meccanismo che collega l’infarto miocardico (MI) e l’insufficienza cardiaca con un aumento dell’incidenza del cancro. Piccole vescicole extracellulari cardiache (sEVs), in particolare quelle derivate dalle cellule stromali mesenchimali cardiache (cMSC-sEVs), contribuirebbero al legame tra la disfunzione ventricolare sinistra post-MI (LVD) e il cancro.

Le sEVs provenienti da cuori post-MI e cMSCs e coltivate sono state testate per gli effetti proneoplastici su diverse linee di cellule tumorali, macrofagi e cellule endoteliali.

I cuori post-MI, in particolare le cMSCs, hanno prodotto più sEVs con carico proneoplastico rispetto ai cuori sani.
Gli effetti proneoplastici delle cMSC-sEVs sono correlati con i tumori del polmone e del colon più che con le cellule di melanoma e cancro al seno.

A  28 giorni, i topi con LVD post-MI hanno sviluppato tumori polmonari più grandi rispetto ai topi di controllo. Il trasferimento di cMSC-sEVs da cuori post-MI ha accelerato la crescita dei tumori polmonari.

Il trattamento con spironolattone riduce significativamente la crescita del tumore dopo un MI.

Caller T, et al.  Small Extracellular Vesicles From Infarcted and Failing Heart Accelerate Tumor Growth. Circulation. 2024 Mar 15. 

Un nuovo farmaco per l’ipertensione: lo zilebesiran

Lo zilebesiran è un nuovo farmaco che si candida al trattamento dell’ipertensione arteriosa e che appartiene agli RNA-interferenti.

Lo zilebesiran appartiene a una nuova classe di farmaci detti RNA-interferenti a cui appartiene anche l’inclisiran e di cui questa testata si è già occupata in alcune pillole precedenti [1,2]. In pratica si tratta di piccoli frammenti di RNA in grado di “silenziare” a livello epatico l’RNA messaggero riducendo la sintesi di determinate proteine. Per esempio l’inclisiran “silenzia” l’RNA messaggero necessario per la sintesi della proteina PCSK9 (proproteina convertasi subtilisina ketina di tipo 9) coinvolta nella degradazione dei recettori per le LDL presenti sulla superficie degli epatociti. Questo comporta una maggior captazione del colesterolo LDL e quindi una riduzione dei suoi livelli plasmatici.
Lo zilebesiran agisce, sempre a livello epatico, riducendo la sintesi dell’angiotensinogeno, una glicoproteina che – grazie all’enzima renina – viene convertito in angiotensina I che, a sua volta, per opera dell’enzima ACE (angiotensing converting enzyme) – prodotto in particolare dalle cellule endoteliali dei vasi sanguigni polmonari – viene trasformata in angiotensina II.
In uno studio di fase 1 pubblicato nel 2023 dal New England Journal of Medicine [3] sono stati reclutati 107 pazienti ipertesi (età: 18-65 anni) randomizzati a placebo oppure a zilebesiran (dosi crescenti da 10 a 800 mg in singola iniezione sottocutanea). Il follow-up dello studio è stato di 24 settimane. I partecipanti erano sottoposti a esame Holter/24 ore e se i valori pressori non erano controllati era possibile aggiungere altri farmaci antipertensivi. Questa costituiva la parte A dello studio.
Nella parte B è stato valutato l’effetto sulla pressione arteriosa di una dose fissa di 800 mg del farmaco in condizioni di basso o elevato introito di sale. Nella parte E, infine, è stato valutato l’effetto sulla pressione arteriosa tramite Holter/24 ore di 800 mg di zilebesiran associato a irbesartan.
Nella parte A dello studio si è evidenziato che una singola dose di zilebesiran ≥ 200 mg comportava una riduzione sia della pressione sistolica (> 10 mmHg) che della diastolica (> 5 mmHg) alla 8° settimana. Questi cambiamenti erano persistenti per tutto il ciclo circadiano e fino alla 24° settimana.
Nella parte B ed E dello studio si è visto che l’effetto dello zilebesiran risultava attenuato con una elevata introduzione di sale e aumentato con la somministrazione contemporanea di irbesartan.
Gli effetti collaterali più frequenti sono state lievi reazioni nel sito di iniezione mentre non si sono verificati casi di ipotensione, iperpotassiemia o peggioramento della funzionalità renale.
Dallo studio sono stati esclusi pazienti che avevano un’ipertensione secondaria, che soffrivano di ipotensione ortostatica, con diabete o pregressi eventi cardiovascolari.
Più recentemente sono stati pubblicati i risultati dello studio KARDIA-1, un trial di fase 2, in cui sono stati reclutati 394 pazienti affetti da ipertensione lieve o moderata [4]. La pressione sistolica media giornaliera andava da 135 a 160 mmHg. Dopo un washout dai farmaci antipertensivi assunti i partecipanti sono stati randomizzati a placebo oppure a zilebesiran secondo 4 regimi terapeutici (150, 300 o 600 mg per via sottocutanea una volta ogni 6 mesi oppure 300 mg una volta ogni 3 mesi). I partecipanti del gruppo controllo ricevevano una iniezione sottocutanea di placebo ogni 3 mesi.
Lo studio ha avuto una durata di 6 mesi.
Al 3° mesi la pressione era diminuita mediamente di 7,3 mmHg nel gruppo 150 mg ogni 6 mesi, di 10 mmHg nel gruppo trattato con un’iniezione di 300 mg ogni 3 mesi oppure ogni 6 mesi, di 8,9 mmHg nel ramo che aveva ricevuto 600 mg ogni 6 mesi e di 6,8 mmHg nel gruppo trattato con placebo.
Eventi avversi gravi al 6° mese si ebbero nel 3,6% del gruppo trattato con il farmaco rispetto al 6,7% del gruppo placebo.
Come si vede da questi due trial lo zilebesiran è efficace nel lungo periodo (fino a 6 mesi), ha un effetto che si mantiene sia di giorno che di notte e può contribuire a favorire la compliance al trattamento antipertensivo bastando una sola iniezione sottocutanea ogni 3-6 mesi.
Si tratta quindi di un’opportunità promettente, ma per il momento gli studi hanno arruolato una casistica limitata, sono stati esclusi pazienti con ipertensione grave, con diabete, con pregressi eventi cardiovascolari e gli anziani. Inoltre gli endpoint valutati sono di tipo surrogato (effetto sui valori pressori) e il follow-up è stato breve. Studi futuri su casistica più numerosa e con durata prolungata potranno valutare l’efficacia del farmaco su endpoint clinicamente rilevanti e chiarirne il profilo di sicurezza.

Bibliografia

1. http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=8144

2. http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=8148

3. Desai AS, Webb DJ, Taubel J et al. Zilebesiran, an RNA Interference therapeutic agent for hypertension. N Engl J Med. 2023; 389:228-38.

4. Bakris GL, Saxena M, Gupta A, et al. RNA Interference With Zilebesiran for Mild to Moderate Hypertension: The KARDIA-1 Randomized Clinical Trial. JAMA. 2024 Feb 16:e240728. doi: 10.1001/jama.2024.0728.

DOAC vs warfarin nella trombosi cerebrale

In un ampio studio retrospettivo su pazienti affetti da trombosi cerebrale la terapia con anticoagulanti diretti (in prevalenza apixaban) è risultata efficace quanto quella con warfarin ma più sicura sulle emorragie maggiori.

Scopo della terapia anticoagulante nei pazienti con trombosi cerebrale è quello di evitare progressioni e recidive che possono provocare gravi conseguenze sia in termini di morbilità che di mortalità e di favorire la ricanalizzazione della trombosi per evitare l’ipertensione endocranica e le sue conseguenze quali papilledema, perdita della vista e fistole arterovenose della dura. Precedenti studi effettuati su un numero limitato di pazienti hanno mostrato che la terapia con anticoagulanti orali è efficace quanto quella con il warfarin nel trattamento della trombosi venosa cerebrale con un minor rischio di insorgenza di eventi avversi. Il presente studio retrospettivo ha considerato un ampio numero di soggetti affetti da trombosi venosa cerebrale che sono stati trattati con nuovi anticoagulanti orali (n 279) (in larga prevalenza apixaban, 66%), con warfarin (n 438) o con entrambi i farmaci (n 128). Il tempo mediano dalla diagnosi alla prima valutazione radiologica è stato di 102 giorni (49-180).

Durante un follow-up mediano di 345 giorni (interquartile range, 140–720), sono state osservate 46 recidive di trombosi  (17 trombosi venose periferiche, 27  centrali CVT, 2  sia periferiche che centrali. Sono state inoltre osservate 32 emorragie maggiori (23 intracranianiche [19 sintomatiche e 4 asintomatiche] e 9 emorragie extracraniche), e 1.84 morti per 100 pazienti anno. tra i 525 pazienti che soddisfacevano i criteri per la valutazione della ricanalizzazione , 192 (36.6%) avevano avuto una ricanalizzazione completa, 253 (48.2%) parziale, e 80 (15.2%) nessuna ricanalizzazione. Non sono state osservate differenze significative per quanto concerne le recidive, la morte o la ricanalizzazione tra gruppo DOAC e gruppo warfarin. mentre è emersa una differenza statisticamente significativa in favore dei DOAC per quanto attiene alle emorragie maggiori (adjusted HR 0.35 (95% CL 0.15-0.82 p<0.002).

Pur con le limitazioni di uno studio retrospettivo, gli autori concludono che la terapia con DOAC è un alternativa ragionevole al warfarin nel trattamento dei pazienti con trombosi venosa cerebrale e che si associa ad un minor rischio di emorragie maggiori.

Riferimento bibliografico

Yaghi S. et al: Stroke. 2022;53:728–738

 

ASA efficace come eparina nella prevenzione del tromboembolismo da chirurgia ortopedica?

L’aspirina può essere un’alternativa all’eparina a basso peso molecolare nella tromboprofilassi nei pazienti con fratture agli arti trattati chirurgicamente sottoposti a intervento o con una frattura pelvica o acetabolare?

Lo studio PREVENT CLOT si è prefisso di rispondere a questo quesito arruolando 12211 pazienti che dovevano sottoporsi ad interventi di chirurgia ortopedica maggiore per eventi fratturativi agli arti inferiori o al bacino dei quali 6101 hanno ricevuto 81 mg di ASA due volte al giorno e 6110 30 mg di enoxaparina due volte al giorno. Lo studio è di non-inferiorità, randomizzato, controllato e multicentrico; condotto presso 21 centri in USA e Canada dal 2017 al 2021.

L’età media è stata di 44.6 (±17.8) anni e i pazienti sono risultati prevalentemente di sesso maschile (62.2%). Lo 0.7% aveva storia di tromboembolismo venoso e il 2.5% di patologia oncologica. Meno del 2% assumeva terapia ormonale. In media, i pazienti sono stati trattati per 8.8 giorni durante la degenza e hanno continuato il trattamento per 21 giorni dopo la dimissione.

Nell’analisi “intention to treat” per quanto riguarda l’endpoint primario, rappresentato dalla morte per qualsiasi causa a 90 giorni dall’intervento, è risultata di 47 pazienti (0.78%) nel gruppo ASA e 45 (0.73%) nel gruppo eparina.
Per quanto concerne gli endpoint secondari, la trombosi venosa profonda (non fatale) è risultata di 8 pazienti in più ogni 1.000 trattati nel gruppo ASA [151 (2.51%) ASA vs 103 (1.71%) eparina; differenza=0.80%, da 0.28 a 1.31)] e l’ incidenza di embolia polmonare (non fatale) è stata di 1.49% in entrambi i gruppi.

Anche per la morte per embolia polmonare non ci sono state differenze statisticamente significative tra i due gruppi [4 (0.07%) ASA vs 5 (0.08%) eparina; differenza=-0.02%, da -0.12 a 0.08)]
I sanguinamenti sono risultati 6 in meno ogni 1.000 trattati con ASA [834 (13.72%) ASA vs 869 (14.27%) eparina; differenza=-0.54%; da -1.78 a 0.69].

Gli autori concludono che nella prevenzione della morte per qualsiasi causa a 90 giorni, la tromboprofilassi con aspirina si è dimostrata non inferiore rispetto a quella con eparina a basso peso molecolare nei pazienti che presentavano un trauma di natura ortopedica. Inoltre, si è osservato un rischio simile di embolia polmonare tra i gruppi, così come nessuna differenza è stata riscontrata nell’ incidenza di sanguinamenti tra coloro che avevano assunto aspirina o eparina a basso peso molecolare.

Referenza bibliografica

  1. Major Extremity Trauma Research Consortium (METRC):  Aspirin or Low-Molecular-Weight Heparin for Thromboprophylaxis after a Fracture. N Engl J Med 2023; 388:203-13. DOI: 10.1056/NEJMoa2205973

Rilettura studio Fournier getta ombre sui risultati pubblicati

E’ stata recentemente pubblicata su BMJ Open una rianalisi (1) dei dati di mortalità dello studio FOURIER (2), condotto in 1.242 centri in 49 paesi, è stato sviluppato per supportare l’indicazione di evolocumab nella riduzione del rischio cardiovascolare in prevenzione secondaria, versus placebo sugli outcomes cardiovascolari in 27.564 pazienti trattati con statina con evidenza clinica di aterosclerosi e CLDL > 70 mg/dL. Evolocumab è un anticorpo monoclonale approvato per il trattamento di pazienti che non raggiungono livelli di LDL ottimali con la dose massima tollerata di statina.
I risultati pubblicati nel NEJM evidenziano l’efficacia di evolocumab nell’abbassare i livelli di colesterolo e la superiorità verso il placebo nel ridurre gli eventi cardiovascolari. Lo studio FOURIER fu interrotto precocemente, circa 30 mesi prima dei 56 previsti.
Dopo una revisione dettagliata dei dati sulla mortalità , i ricercatori hanno riscontrato che la mortalità per infarto del miocardio era maggiore nel gruppo trattato con evolocumab (36 morti), rispetto al gruppo trattato con placebo (27 morti), diversamente da quanto riportato nello studio pubblicato sul NEJM (rispettivamente 25 e 30).
È stata inoltre riscontrata una mortalità per insufficienza cardiaca più elevata nel gruppo trattato con evolocumab (31 morti) rispetto a quello trattato con placebo (16 morti; dati non pubblicati).
La rianalisi dei dati evidenzia che 360 degli 870 morti (41,4%) registrati durante lo studio, sono stati erroneamente assegnati. Dopo la corretta riassegnazione, gli autori hanno riscontrato che la mortalità era il 20% più alta nel gruppo trattato con evolocumab rispetto al placebo, anziché il 5% come pubblicato nel NEJM nel 2017, sebbene questa differenza non fosse statisticamente significativa.

Bibliografia

  1. Erviti J, Wright J, Bassett K, et al. Restoring mortality data in the FOURIER cardiovascular outcomes trial of evolocumab in patients with cardiovascular disease: a
    reanalysis based on regulatory data. BMJ Open 2022;12:e060172. doi: 10.1136/bmjopen-2021-060172
  2. Sabatine MS, Giugliano RP, Keech AC, et al. Evolocumab and clinical outcomes in patients with cardiovascular disease. N Engl J Med Overseas Ed 2017;376:1713–22.
    doi:10.1056/NEJMoa1615664