Aumento di rischio di cancro nello scompenso cardiaco e IMA?

Uno  studio su linee cellulari di topi prospetta un meccanismo che collega l’infarto miocardico (MI) e l’insufficienza cardiaca con un aumento dell’incidenza del cancro. Piccole vescicole extracellulari cardiache (sEVs), in particolare quelle derivate dalle cellule stromali mesenchimali cardiache (cMSC-sEVs), contribuirebbero al legame tra la disfunzione ventricolare sinistra post-MI (LVD) e il cancro.

Le sEVs provenienti da cuori post-MI e cMSCs e coltivate sono state testate per gli effetti proneoplastici su diverse linee di cellule tumorali, macrofagi e cellule endoteliali.

I cuori post-MI, in particolare le cMSCs, hanno prodotto più sEVs con carico proneoplastico rispetto ai cuori sani.
Gli effetti proneoplastici delle cMSC-sEVs sono correlati con i tumori del polmone e del colon più che con le cellule di melanoma e cancro al seno.

A  28 giorni, i topi con LVD post-MI hanno sviluppato tumori polmonari più grandi rispetto ai topi di controllo. Il trasferimento di cMSC-sEVs da cuori post-MI ha accelerato la crescita dei tumori polmonari.

Il trattamento con spironolattone riduce significativamente la crescita del tumore dopo un MI.

Caller T, et al.  Small Extracellular Vesicles From Infarcted and Failing Heart Accelerate Tumor Growth. Circulation. 2024 Mar 15. 

Esketamina spray nella depressione resistente

Munch the scream

Esistono pazienti affetti da depressione che non rispondono a 2 o più farmaci antidepressivi usati consecutivamente. Cosa fare in questi casi? Per rispondere alla domanda è stato effettuato uno studio di fase 3 in cui sono stai reclutati 676 pazienti affetti da depressione resistente.

Dopo randomizzazione sono stati trattati con esketamina spray nasale oppure con quetiapina a rilascio prolungato. In entrambi i gruppi i partecipanti assumevano anche un inibitore selettivo del reuptake della serotonina (SSRI) oppure in inibitore del reuptake della serotonina e della noradrenalina (SNRI).

L’endpoint primario dello studio era la remissione dei sintomi depressivi valutata mediante lo score MADRS (Montgomery-Åsberg Depression Rating Scale) a 8 settimane.
Endpoint secondario era la non recidiva dopo 32 settimane dalla remissione.

Una remissione si e’ verificata nel 27,1% del gruppo esketamina e nel 17,6% del gruppo quetiapina (P = 0,003). Dopo 32 settimane una non recidiva si ebbe rispettivamente nel 21,1% e nel 14,1% dei casi.


Pertanto gli autori concludono che nella depressione resistente a 2 o più farmaci l’associazione di esketamina spray nasale con un SSRI o un SNRI è superiore all’associazione di quetiapina a rilascio prolungato con un SSRI o un SNRI.

L’esketamina dovrebbe quindi essere considerata la prima scelta. Va considerato però il paziente potrebbe non rispondere: nello studio citato circa 2 pazienti su 3 non hanno risposto neppure all’esketamina e questo conferma quanto sia difficile trattare la depressione grave. In questo caso un’alternativa utile è la quetiapina in quanto non è detto che dove un trattamento non è utile non lo possa essere l’altro.

Bibliografia

Reif A, Bitter I, Buyze J, Cebulla K, Frey R, Fu DJ, Ito T, Kambarov Y, Llorca PM, Oliveira-Maia AJ, Messer T, Mulhern-Haughey S, Rive B, von Holt C, Young AH, Godinov Y; ESCAPE-TRD Investigators. Esketamine Nasal Spray versus Quetiapine for Treatment-Resistant Depression. N Engl J Med. 2023 Oct 5;389(14):1298-1309. doi: 10.1056/NEJMoa2304145. PMID: 37792613.

Un nuovo farmaco per l’ipertensione: lo zilebesiran

Lo zilebesiran è un nuovo farmaco che si candida al trattamento dell’ipertensione arteriosa e che appartiene agli RNA-interferenti.

Lo zilebesiran appartiene a una nuova classe di farmaci detti RNA-interferenti a cui appartiene anche l’inclisiran e di cui questa testata si è già occupata in alcune pillole precedenti [1,2]. In pratica si tratta di piccoli frammenti di RNA in grado di “silenziare” a livello epatico l’RNA messaggero riducendo la sintesi di determinate proteine. Per esempio l’inclisiran “silenzia” l’RNA messaggero necessario per la sintesi della proteina PCSK9 (proproteina convertasi subtilisina ketina di tipo 9) coinvolta nella degradazione dei recettori per le LDL presenti sulla superficie degli epatociti. Questo comporta una maggior captazione del colesterolo LDL e quindi una riduzione dei suoi livelli plasmatici.
Lo zilebesiran agisce, sempre a livello epatico, riducendo la sintesi dell’angiotensinogeno, una glicoproteina che – grazie all’enzima renina – viene convertito in angiotensina I che, a sua volta, per opera dell’enzima ACE (angiotensing converting enzyme) – prodotto in particolare dalle cellule endoteliali dei vasi sanguigni polmonari – viene trasformata in angiotensina II.
In uno studio di fase 1 pubblicato nel 2023 dal New England Journal of Medicine [3] sono stati reclutati 107 pazienti ipertesi (età: 18-65 anni) randomizzati a placebo oppure a zilebesiran (dosi crescenti da 10 a 800 mg in singola iniezione sottocutanea). Il follow-up dello studio è stato di 24 settimane. I partecipanti erano sottoposti a esame Holter/24 ore e se i valori pressori non erano controllati era possibile aggiungere altri farmaci antipertensivi. Questa costituiva la parte A dello studio.
Nella parte B è stato valutato l’effetto sulla pressione arteriosa di una dose fissa di 800 mg del farmaco in condizioni di basso o elevato introito di sale. Nella parte E, infine, è stato valutato l’effetto sulla pressione arteriosa tramite Holter/24 ore di 800 mg di zilebesiran associato a irbesartan.
Nella parte A dello studio si è evidenziato che una singola dose di zilebesiran ≥ 200 mg comportava una riduzione sia della pressione sistolica (> 10 mmHg) che della diastolica (> 5 mmHg) alla 8° settimana. Questi cambiamenti erano persistenti per tutto il ciclo circadiano e fino alla 24° settimana.
Nella parte B ed E dello studio si è visto che l’effetto dello zilebesiran risultava attenuato con una elevata introduzione di sale e aumentato con la somministrazione contemporanea di irbesartan.
Gli effetti collaterali più frequenti sono state lievi reazioni nel sito di iniezione mentre non si sono verificati casi di ipotensione, iperpotassiemia o peggioramento della funzionalità renale.
Dallo studio sono stati esclusi pazienti che avevano un’ipertensione secondaria, che soffrivano di ipotensione ortostatica, con diabete o pregressi eventi cardiovascolari.
Più recentemente sono stati pubblicati i risultati dello studio KARDIA-1, un trial di fase 2, in cui sono stati reclutati 394 pazienti affetti da ipertensione lieve o moderata [4]. La pressione sistolica media giornaliera andava da 135 a 160 mmHg. Dopo un washout dai farmaci antipertensivi assunti i partecipanti sono stati randomizzati a placebo oppure a zilebesiran secondo 4 regimi terapeutici (150, 300 o 600 mg per via sottocutanea una volta ogni 6 mesi oppure 300 mg una volta ogni 3 mesi). I partecipanti del gruppo controllo ricevevano una iniezione sottocutanea di placebo ogni 3 mesi.
Lo studio ha avuto una durata di 6 mesi.
Al 3° mesi la pressione era diminuita mediamente di 7,3 mmHg nel gruppo 150 mg ogni 6 mesi, di 10 mmHg nel gruppo trattato con un’iniezione di 300 mg ogni 3 mesi oppure ogni 6 mesi, di 8,9 mmHg nel ramo che aveva ricevuto 600 mg ogni 6 mesi e di 6,8 mmHg nel gruppo trattato con placebo.
Eventi avversi gravi al 6° mese si ebbero nel 3,6% del gruppo trattato con il farmaco rispetto al 6,7% del gruppo placebo.
Come si vede da questi due trial lo zilebesiran è efficace nel lungo periodo (fino a 6 mesi), ha un effetto che si mantiene sia di giorno che di notte e può contribuire a favorire la compliance al trattamento antipertensivo bastando una sola iniezione sottocutanea ogni 3-6 mesi.
Si tratta quindi di un’opportunità promettente, ma per il momento gli studi hanno arruolato una casistica limitata, sono stati esclusi pazienti con ipertensione grave, con diabete, con pregressi eventi cardiovascolari e gli anziani. Inoltre gli endpoint valutati sono di tipo surrogato (effetto sui valori pressori) e il follow-up è stato breve. Studi futuri su casistica più numerosa e con durata prolungata potranno valutare l’efficacia del farmaco su endpoint clinicamente rilevanti e chiarirne il profilo di sicurezza.

Bibliografia

1. http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=8144

2. http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=8148

3. Desai AS, Webb DJ, Taubel J et al. Zilebesiran, an RNA Interference therapeutic agent for hypertension. N Engl J Med. 2023; 389:228-38.

4. Bakris GL, Saxena M, Gupta A, et al. RNA Interference With Zilebesiran for Mild to Moderate Hypertension: The KARDIA-1 Randomized Clinical Trial. JAMA. 2024 Feb 16:e240728. doi: 10.1001/jama.2024.0728.

DOAC vs warfarin nella trombosi cerebrale

In un ampio studio retrospettivo su pazienti affetti da trombosi cerebrale la terapia con anticoagulanti diretti (in prevalenza apixaban) è risultata efficace quanto quella con warfarin ma più sicura sulle emorragie maggiori.

Scopo della terapia anticoagulante nei pazienti con trombosi cerebrale è quello di evitare progressioni e recidive che possono provocare gravi conseguenze sia in termini di morbilità che di mortalità e di favorire la ricanalizzazione della trombosi per evitare l’ipertensione endocranica e le sue conseguenze quali papilledema, perdita della vista e fistole arterovenose della dura. Precedenti studi effettuati su un numero limitato di pazienti hanno mostrato che la terapia con anticoagulanti orali è efficace quanto quella con il warfarin nel trattamento della trombosi venosa cerebrale con un minor rischio di insorgenza di eventi avversi. Il presente studio retrospettivo ha considerato un ampio numero di soggetti affetti da trombosi venosa cerebrale che sono stati trattati con nuovi anticoagulanti orali (n 279) (in larga prevalenza apixaban, 66%), con warfarin (n 438) o con entrambi i farmaci (n 128). Il tempo mediano dalla diagnosi alla prima valutazione radiologica è stato di 102 giorni (49-180).

Durante un follow-up mediano di 345 giorni (interquartile range, 140–720), sono state osservate 46 recidive di trombosi  (17 trombosi venose periferiche, 27  centrali CVT, 2  sia periferiche che centrali. Sono state inoltre osservate 32 emorragie maggiori (23 intracranianiche [19 sintomatiche e 4 asintomatiche] e 9 emorragie extracraniche), e 1.84 morti per 100 pazienti anno. tra i 525 pazienti che soddisfacevano i criteri per la valutazione della ricanalizzazione , 192 (36.6%) avevano avuto una ricanalizzazione completa, 253 (48.2%) parziale, e 80 (15.2%) nessuna ricanalizzazione. Non sono state osservate differenze significative per quanto concerne le recidive, la morte o la ricanalizzazione tra gruppo DOAC e gruppo warfarin. mentre è emersa una differenza statisticamente significativa in favore dei DOAC per quanto attiene alle emorragie maggiori (adjusted HR 0.35 (95% CL 0.15-0.82 p<0.002).

Pur con le limitazioni di uno studio retrospettivo, gli autori concludono che la terapia con DOAC è un alternativa ragionevole al warfarin nel trattamento dei pazienti con trombosi venosa cerebrale e che si associa ad un minor rischio di emorragie maggiori.

Riferimento bibliografico

Yaghi S. et al: Stroke. 2022;53:728–738

 

Talidomide efficace nel sanguinamento da angiodisplasia intestinale


Talidomide, somministrata per os alla dose di 100 mg o 50 mg al giorno, e’ risultata efficace nel ridurre i sanguinamenti intestinali in soggetti con angiodisplasie del tenue a prezzo di effetti collaterali.

Centocinquanta soggetti affetti da angiodisplasia del tenue, confermata mediante enteroscopia o videocapsula, con almeno 4 sanguinamenti nell’anno precedente l’arruolamento, sono stati randomizzati a ricevere 100 mg di talidomide oppure 50 mg di talidomide o placebo per os, in 4 dosi refratte giornaliere. La durata del trattamento e’ stata di 120 giorni. Successivamente i pazienti sono stati osservati per un ulteriore anno. I pazienti che non avevano avuto sanguinamenti nel follow up sono stati seguiti per un ulteriore periodo durato fino ad un nuovo sanguinamento o fino alla conclusione dello studio. I pazienti hanno avuto una buona aderenza al trattamento, superiore al 90 per cento in tutti i gruppi.
L’end point primario era la riduzione di almeno il 50 per cento dei sanguinamenti, accertati con ricerca del sangue fecale ogni due settimane e ad ogni episodio clinicamente indicativo di sanguinamento, nel primo anno di follow up. L’obiettivo e’ stato raggiunto nel 68.6% (35 su 51 pazienti) nel gruppo 100-mg, nel 51.0% (25 su 49 pazienti) in quello 50-mg e nel 16.0% (8 su 50 pazienti) in quello placebo (P<0.001).

Durante i 4 mesi di trattamento l’incidenza di sanguinamento e’ risultata del 27.5% (14 su 51 pazienti) nel gruppo 100-mg, del 42.9% (21 su 49 pazienti) in quello 50-mg, e del 90.0% (45 su 50 pazienti) in quello placebo.

La percentuale di pazienti trasfusi durante il follow-up e’ risultata del 17.6% (9 su 51 pazienti) nel gruppo 100-mg, del 24.5% (12 su 49 pazienti ) in quello 50-mg, e del 62.0% (31 su 50 pazienti) in quello placebo Le ospedalizzazioni per emorragia sono state del 27.5% (14 su 51 pazienti ) nel gruppo 100-mg, del 34.7% (17 su 49 pazienti) in quello 50-mg e del 74.0% (37 su 50 pazienti ) nel gruppo placebo.

Eventi avversi sono stati osservati nel 68.6% del gruppo 100-mg (35 su 51), nel 55.1% del gruppo 50-mg (27 su 49), e nel 28.0% del gruppo placebo (14 su 50). Quelli piu’ frequenti sono risultati la stipsi, la dispepsia e il gonfiore intestinale. In tutti i casi si sono risolti senza conseguenze.

Gli autori concludono che talidomide alla dose di 100 mg/die e di 50 mg/die e’ efficace nel ridurre i sanguinamenti in soggetti affetti da angiodisplasia intestinale a prezzo di eventi avversi.

Riferimento bibliografico

Chen H. Et al: N Engl J Med 2023; 389:1649-1659